Calcolare VFG, riassorbimento sodio, riassorbimento glucosio
domenica 27 novembre 2016
domenica 20 novembre 2016
lunedì 14 novembre 2016
Olio di Palma e altri oli
Per fare un olio ci vuole un seme (o un frutto). Gli oli spiegati bene
In ogni parte del mondo l’uomo ha sfruttato da tempi immemorabili oli e grassi per gli scopi più disparati: come cosmetici o combustibili, a scopi rituali, come lubrificanti o come medicamenti e, ovviamente, come alimenti. In alcuni casi i grassi erano di provenienza animale. Oltre al burro e allo strutto per esempio si usava, anche in Italia, il sego. Ormai ben poco usato nella cucina casalinga, sostituito da altri grassi alimentari, questo grasso veniva usato per friggere. Solido a temperatura ambiente in un’epoca in cui i frigoriferi non erano ancora entrati nelle cucine, il sego si conservava senza problemi, in un contenitore, anche a temperatura ambiente, a differenza dello strutto. Trovava applicazioni però soprattutto al di fuori della cucina: come lubrificante e per fabbricare saponi o candele.

Altre culture hanno sfruttato i grassi dagli animali che avevano a disposizione. Persino da mammiferi marini come le foche o le balene. Più spesso però la fonte di grassi alimentari è stata, ed è tutt’ora, di tipo vegetale. Molti oli vegetali sono usati fin dall’antichità: nel bacino mediterraneo l’olio di oliva e in asia l’olio di sesamo per esempio.
Prima di proseguire vi ricordo che userò i termini “oli” e “grassi” in modo intercambiabile: gli oli sono grassi solitamente liquidi a temperatura ambiente.
Dai frutti
Possiamo distinguere gli oli a seconda della loro origine. Ve ne sono alcuni che vengono prodotti a partire da frutti. L’olio di oliva è l’esempio a noi più noto, ma anche l’olio di palma appartiene a questa categoria e così l’olio di cocco. Una caratteristica dei frutti è di contenere una buona percentuale di acqua e di essere facilmente deperibili. Per questo motivo gli oli da frutti sono solitamente estratti vicino ai luoghi di raccolta, per evitare un deterioramento delle qualità dell’olio.
Frutto | % di olio contenuto |
Oliva | 15-20% |
Frutto della palma da olio (polpa) | 21-25% |
Noce di cocco (polpa) | 33% |
La produzione di questi oli si può basare su procedimenti meccanici, gli unici utilizzabili prima dell’avvento della chimica moderna.
Forse avrete visitato qualche vecchio frantoio, con quelle enormi macine di pietra spinte dal bestiame usate per spremere l’olio. Ora i frantoi moderni non funzionano più così e le olive non sono più “spremute” nonostante la pubblicità ancora parli di “prima spremitura” o “spremitura a freddo”. Dopo aver rotto le olive, macinato la pasta ed eliminato il nocciolo si passa a una fase di centrifugazione per separare la fase acquosa dall’olio. In un capitolo futuro esamineremo tutto il processo di produzione dell’olio di oliva distinguendone i vari tipi.
Le olive si deteriorano in fretta dopo la raccolta e andrebbero lavorate entro brevissimo tempo, idealmente anche solo 24 ore, pena la perdita di qualità dell’olio. Un olio di oliva deteriorato non può essere venduto come extravergine e può subire lavorazioni di raffinazione ulteriori prima di essere messo in commercio.
Un procedimento analogo viene seguito per i frutti della palma da olio. Anche in questo caso la presenza di acqua è sfruttata per separare, dopo la separazione del seme interno, la fase acquosa dall’olio, producendo l’olio di palma vergine, che è rosso, ed è un prodotto tradizionale usato in molti paesi africani nella loro cucina. Ha anche un buon contenuto nutrizionale, soprattutto betacaroteni.
Qui vedete nella foto delle palme da olio (Elaeis guineensis) e un casco carico di frutti, grandi quanto delle albicocche.
Esattamente come per le olive, i frutti della palma possono venire danneggiati durante la raccolta o nelle fasi successive. Questo libera un enzima, la lipasi, che inizia a decomporre i trigliceridi liberando gli acidi grassi e lasciando dei monogliceridi e digliceridi. Il contenuto di acidi grassi liberi può raggiungere anche il 5% (tenete presente che per un olio extravergine di oliva gli acidi grassi liberi non devono superare lo 0.8% mentre un olio vergine può arrivare fino al 2%).
Un olio con troppi acidi grassi liberi, che sia di palma o di altra provenienza, può –e a volte deve– essere raffinato per ridurli, come vedremo in un prossimo articolo. Nella raffinazione si eliminano le impurità per produrre un olio più insapore e inodore e quindi più adatto alle varie applicazioni tecnologiche. Purtroppo in alcuni casi vengono anche perse tutte quelle sostanze disciolte nell’olio di partenza potenzialmente benefiche per la salute.
Caso unico, dal frutto della palma da olio si producono due oli con caratteristiche molti diverse. Dalla polpa si estrae, appunto, l’olio di palma. Dal seme invece si ottiene l’olio di palmisti (o palmisto). In inglese è il palm kernel oil. Le caratteristiche chimiche e tecnologiche dell’olio di palmisto sono molto diverse da quello di palma, essendo chimicamente molto più simile all’olio di cocco.
Dai semi

La percentuale di grassi in un seme può variare enormemente. Le noci macadamia contengono più del 75% di grassi, le nocciole 60%, le arachidi il 50%, i semi di girasole il 50% mentre quelli di soia il 20%. Tenete presente che le percentuali possono variare anche molto a seconda della varietà, del clima e di molti altri fattori.
Molti di questi oli, come quello di nocciole, hanno una lunga storia. Anche loro si possono ottenere per spremitura meccanica, a patto che la percentuale di grassi sia superiore, più o meno, al 30%, altrimenti le rese sono troppo basse. Per percentuali di grassi inferiori si utilizza invece la tecnica di estrazione con solventi organici.
L’invenzione dell’estrazione di oli con un solvente risale al 1855 quando E. Deiss di Marsiglia brevettò e sfruttò questo processo, usando come solvente il disolfuro di carbonio, per estrarre l’olio di oliva residuo ancora presente nella pasta spremuta, chiamata sansa.
Attualmente il solvente industriale più utilizzato per estrarre gli oli di semi è l’esano. Nell’estrattore i semi rimangono da 30 a 120 minuti, a una temperatura di circa 60 °C. In passato sono stati usati molti altri solventi, come il benzene e il tricloroetilene (la comune trielina). Tuttavia si scoprì che l’uso del tricloroetilene poteva lasciare sostanze tossiche nella farina di semi residua, usata come mangime animale, causando negli anni la morte di vari animali. Si è così passati a solventi meno pericolosi come l’esano.
Tempo fa abbiamo estratto un po’ di olio di soia con una versione casalinga di questo metodo, ricordate? Prima dell’estrazione i semi vengono schiacciati e ridotti in fiocchi sottili dello spessore inferiore al millimetro, in modo che il solvente possa penetrare velocemente e estrarre il più possibile l’olio.
Gli impianti di estrazione possono essere molto grandi. In Argentina gli impianti per estrarre olio dalla soia possono lavorare 20.000 tonnellate di semi al giorno.
Alcuni di questi semi, come soia, girasole e colza, hanno un buon contenuto sia di grassi che di proteine, e quindi una volta estratto l’olio la farina rimasta può essere utilizzata come mangime animale oppure, specialmente nel caso della soia, utilizzata come alimento umano.
Poiché la spremitura meccanica lascia comunque una gran quantità di olio contenuto nel residuo, solitamente per i semi ad alto contenuto di grassi si effettua una prima spremitura meccanica iniziale in modo da ridurre il contenuto di olio a circa il 20%. Il residuo viene poi sottoposto a estrazione con solvente, operazione che lascia nei residui proteici meno dell’1% di olio. Le due frazioni di olio vengono poi unite e mandate alla fase di raffinazione.
In Europa e nel Nord America l’estrazione con solventi è la norma. Vi sono però anche piccole produzioni di oli biologici solamente da spremitura, con un costo superiore, per i consumatori che non vogliono consumare oli che siano stati in contatto con dei solventi organici.
Ma l’olio di mais?
Esiste anche una terza categoria di oli, provenienti da semi con pochissimi grassi, come quelli di mais e di riso, dove i grassi vengono estratti dal germe e dalla crusca perché il seme contiene prevalentemente amido. Un chicco di mais contiene al massimo il 4% di grassi e un chicco di riso integrale il 2%. Questi oli quindi sono il sottoprodotto della lavorazione su larga scala di cereali, soprattutto per la produzione di amido, che durante il processo produttivo vengono privati della crusca e del germe. A causa della piccola quantità di grassi presenti l’estrazione con solvente è praticamente l’unica tecnica utilizzata industrialmente oggi.
Eliminare il solvente
L’esano commerciale –una miscela di idrocarburi derivanti dalla raffinazione del petrolio– ha un punto di ebollizione piuttosto basso: 64-69 °C, quindi è piuttosto facile, dopo l’estrazione, separarlo dall’olio mediante evaporazione a bassa pressione o altre tecniche adatte al suo recupero, per poterlo riutilizzare. Ovviamente sia l’olio che i fiocchi esausti, per poter essere commestibili, non devono contenere residui significativi di esano. La legislazione italiana, recependo la direttiva Europea 2009/32/CE fissa a 1 mg/kg il residuo massimo di esano che può essere presente nell’olio. Per quel che riguarda i prodotti proteici e le farine sgrassate il limite massimo è di 10 mg/kg nei prodotti alimentari contenenti il prodotto proteico e le farine sgrassate. Mentre nei prodotti di soia sgrassata venduti al consumatore finale il limite è di 30 mg/kg.
Direi che per questa seconda puntata possiamo fermarci qui.
Alla prossima
Dario Bressanin
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sabato 12 novembre 2016
Quando non esistevano regole il radioattivo faceva bene, come le vitamine
Per quanto al giorno d’oggi possa sembrare quasi incredibile, appena scoperta la radioattività erano in molti a pensare che questa fosse in realtà estremamente benefica e potesse essere usata come cura per le problematiche più disparate. La cura “miracolosa” proposta per la più ampia gamma di usi è stato il Radithor, che ha causato la morte di diverse persone, cosa che ha condotto ad un’indagine più approfondita sugli effetti reali delle radiazioni.
Profilattici al radio. Per recuperare vigore sessuale, in tempi in cui non c’era il Viagra, intorno al 1920 sono stati messi in commercio dei profilattici al radio: per rivitalizzare la propria vita sessuale, infatti, cosa poteva esserci di meglio di bombardarsi il pene con profilattici radioattivi?
Gelato all’uranio. E’ stato in vendita per un periodo solo nella costa occidentale degli USA, per festeggiare la scoperta di un giacimento di uranio. Non è chiaro se effettivamente contenesse l’elemento, ma dimostrare comuqneu quanto fossero stati male compresi gli effetti delle radiazioni all’inizio del ‘900, e quanto invece in molti fossero entusiasti di queste novità.
Crema di bellezza “tho-radia“. Commercializzata in Francia, è stato il tentativo del mondo dei prodotti per la cura della persona di realizzare un prodotto che offrisse i presunti effetti benefici della radioattività.
Dentifricio al torio. Anche i denti meritano le loro dose di radiazioni, verrebbe da dire. Realizzato in Germania alle porte della seconda guerra mondiale, fortunatamente (per ragioni di costi, sembra) conteneva concentrazioni di materiale radioattivo molto ridotte.
Addizionatore di radio per l’acqua potabile. Per essere sicuri di prendere una “giusta” dose di materiale radioattivo, la cosa migliore è addizionarlo all’acqua che si beve. All’inizio del secolo scorso, sono state venduti diversi modelli di vasche che avevano lo scopo di miscelare l’acqua potabile con elementi radiattivi come il radio.
La “moda” di usare materiali radioattivi non si è però fermata all’inizio del secolo scorso. Negli anni ’80 un produttore giapponese ha realizzato la “NAC Plate”, una placca di metallo contenente uranio, da inserire nel pacchetto di sigarette e che avrebbe dovuto diminuire la concentrazione di nicotina nelle sigarette stesse. Certo, cosa ci può essere di meglio di fumare delle sigarette più leggere, ma radioattive?
Amimali utilizzati nella ricerca
Roditori sono i più utilizzati (topi 69%), non rodent mammals sono il 3%. Ma servono i test sugli animali?
uno su diecimila ce la fa
In media per ottenere un farmaco si sperimentano circa diecimila diverse molecole. Le fasi di ricerca sono il maggior costo per lo sviluppo di un nuovo farmaco. I fallimenti ovvero le molecole abbandonate perché non efficaci o con caratteristiche non idonee costituiscono la gran parte di questi costi. Ma il biologo in quale fase interviene, in cosa è importante? Riprendiamoci il ruolo del biologo ricordandoci che alcune fasi della ricerca farmacologica il biologo ha competenze che altri non hanno.
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